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A Padova i testimoni di guerra: garantire ai giornalisti le stesse tutele della Croce Rossa

Cura del vero e giustizia sociale, in tempo di guerra l’informazione assume un ruolo ancor più decisivo. Molto spesso i giornalisti sono l’unico canale informativo attendibile anche per i tribunali penali e la protezione assicurata dalla Commissione europea dei diritti umani in tempo di pace devono essere ancor più rafforzati.

Gli inviati nei tanti conflitti bellici in atto, ha sottolineato la segretaria generale della Fnsi, Alessandra Costante, sono diventati un bersaglio non casuale, non sono “danni collaterali”, ma vengono colpiti in maniera deliberata anche se contraddistinti da giubbotti e auto con la scritta Press. In questo modo si vuole impedire loro di essere testimoni di crimini contro l’umanità e di altre gravi violazioni. Una dozzina i cronisti uccisi in Ucraina in venti mesi di combattimenti, oltre trenta quelli morti ammazzati in Medio oriente in poco più di tre settimane.

Di qui la proposta, subito raccolta dai vertici Fnsi, della giurista Marina Castellaneta, docente dell’Università di Bari, a sollecitare una modifica delle norme del Diritto internazionale umanitario e del Diritto internazionale penale nel senso di accordare una speciale tutela ai giornalisti e consentire ai giornalisti chiamati a svolgere la loro attività in contesti di guerra di avere una sorta di immunità simile a quella del personale della Croce rossa perché in grado di avere notizie reali e non falsate o filtrate dai vari governi.

Il riferimento va in particolare all’art. 79 del primo protocollo addizionale alla Convenzione di Ginevra che riguarda le misure di protezione dei giornalisti che svolgono missioni professionali in zone di conflitto armato e che sono molto limitate rispetto a quelle accordate a medici e personale sanitario, e al fatto che non è garantita la segretezza sulle fonti nel regolamento di procedura e prova della Corte penale internazionale chiamata a giudicare su crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Temi che sono emersi nel corso del convegno, organizzato nell’ambito del Protocollo sottoscritto dall’Università di Padova e Fnsi, che si è svolto lo scorso 31 ottobre nella sala dell’Archivio Antico al Bo, seguito da oltre 150 persone, in maggioranza giornaliste e giornalisti, a due giorni dalla Giornata mondiale per porre fine all’impunità dei crimini contro i giornalisti istituita dall’Onu.

L’obiettivo era sviluppare un approccio critico rispetto al racconto della guerra, tornata a infuriare dal febbraio 2022 in Europa e di recente nel Medio Oriente, sempre presente in Africa e dimenticata.

Dopo i saluti della professoressa Laura Nota, coordinatrice del Laboratorio Unipd-Fnsi “La cura del vero”, ricerca interdisciplinare che abbia al centro l’inclusione, la riduzione delle diseguaglianze, la sostenibilità sociale e ambientale e che vede nell’informazione uno strumento fondamentale, Marco Mascia, titolare della cattedra Unesco “Diritti Umani, Democrazia e Pace” a Unipd non ha fatto sconti rispetto al ruolo delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea che, quest’ultima, non ha saputo prevenire i conflitti in Ucraina, in Nagorno Karabakh, in Medio Oriente.

Perché gli Stati non fanno funzionare le organizzazioni internazionali e multilaterali a partire dall’Onu, nata per salvare le future generazioni dal flagello della guerra? E ancora, la via giuridica istituzionale non violenta alla pace che Antonio Papisca aveva teorizzato è ancora percorribile?

Mascia è stato chiaro: la responsabilità dell’inerzia delle Nazioni Unite non è dell’organismo in sé ma dei suoi stati membri, in particolare dei cinque permanenti.

La cultura oggi egemone, ha concluso,  fa coesistere pace e guerra, anzi apre alla guerra nel momento in cui diciamo che c’è una guerra giusta allora diciamo che c’è una pace giusta, ma la guerra è guerra. Al contrario il diritto internazionale dei diritti umani definisce la guerra come un flagello e la ripudia è un diritto per la vita e per la pace quello dei diritti umani, per la cura che opera all’insegna del detto sivis pace para pacem.

In questo “spirito del tempo”, contraddistinto dal prevalere dell’homo oeconomicus e dell’interesse personale, che idee hanno i giovani rispetto a guerra, pace e futuro? La domanda è stata posta, all’interno di una più ampia ricerca ancora in corso di Larios Unipd, a un campione di un centinaio di ragazze e ragazzi di 17 anni. Il risultato del lavoro portato avanti da Nota, Maria Cristina GinevraSara Santilli e Salvatore Soresi fa riflettere:

chi aderisce a una visione economica mainstream ha una minore propensione verso la pace, bisogna agire per stimolare coscienza critica per valorizzare diversità eterogeneità, comunicare in modo non violento, inclusivo, considerare il proprio futuro professionale in modo dignitoso che dia dignità non solo all’essere umano individuale ma anche alla comunità, al sistema, all’ambiente.

L’affondo finale di Soresi è rivolto agli “amici giornalisti” affinché insieme a orientatori e docenti si diventi insieme operatori che indichino dove stiamo andando, che attivino sentinelle dei futuri possibili.

Serve un pensiero complesso, quello che la guerra distrugge riducendolo a una logica binaria che rifugge dal contesto, ha proseguito Roberto Reale, studioso dei media, ricordando Edgar Morin. La sua è stata una ricognizione sull’informazione “di guerra” con la lente delle notizie che scompaiono: i profitti non solo delle aziende belliche, le voci che parlano di pace, gli esperti militari che mettono in guardia sull’inutilità degli scontri armati. Ma anche sul rischio assuefazione, normalizzazione del dolore, di fronte alla sovraesposizione mediatica della violenza, citando i testi illuminanti di Susan Sontag e della criminalizzazione dei popoli interi e non dei governi, riprendendo la lezione ineguagliabile di Vasilij Semënovič Grossman che, ebreo come Morin, nel raccontare l’assedio di Stalingrado ha sempre descritto crimini nazisti, mai tedeschi.

Infine cosa possono fare i giornalisti, o meglio gli operatori dell’informazione?

Due punti di vista. Dalla redazione e dal fronte. Per Matteo Puciarelli, cronista di Repubblica, si deve cercare di evitare generalizzazioni, disumanizzazione, polarizzazione, dando spazio a esperienze di dialogo nei luoghi di conflitto perché siamo abituati a raccontare l’umanità attraverso le guerre, qualcosa che sempre esistito e che esisterà, intrappolati in questo schema mentale, senza mai dare la conta dei salvati dal titolo del libro della storica Anna Bravo. Per Claudio Locatelli, reporter di guerra freelance, nei reportage è importante far capire che non si è sul set di un film, che la gente ripresa non necessariamente deve essere in fuga, deve correre. Perché la guerra irrompe all’improvviso nella quotidianità di sempre: ora sei vivo e in un attimo sei morto.

Il convegno è stato moderato da Monica Andolfatto, segretaria del Sindacato giornalisti Veneto e componente della Giunta Fnsi con delega alla Formazione. Il Laboratorio “La cura del vero” continua l’impegno per contribuire, come precisato dalla segretaria Costante, a delineare lo stato più che della professione, del mestiere di giornalista che si impara facendolo e con una formazione continua.